lunedì 27 dicembre 2010

Il 26 dicembre le stelle comete scioperano


L’illusione di aver trovato la pace familiare durò pochi giorni. Mentre si allontanava da quei posti che avrebbero potuto essere suoi pensava che la vita era come una grande lavatrice: non si possono mischiare due cose insieme il rischio è quello di scolorire tutto. Evidentemente il bene era un sentimento troppo pesante per un mondo così leggero anzi leggerissimo eternamente sospeso sulla linea retta del proprio egoismo. Come tante altre volte in cui aveva creduto nella buona fede delle persone, o almeno di quelle che sembravano portare nel cuore il suo stesso terribile fardello e ora si sentiva vuoto, spento, morto affossato nella bara del proprio infantile sentimento. Potare gli ulivi era sicuramente più urgente che coltivare l’intricata boscaglia dei propri sentimenti. Di fronte a simili priorità, certa gente pensava fosse meglio rinunciare. E cosi fu.
Mentre tornava a casa a mangiare la sua pasta e fagioli scotta da ore pensava a tutte quelle volte in cui aveva osservato con invidia le persone che si abbracciavano, sorridevano si dicevano “ti voglio bene”. Lui non lo aveva mai fatto. C’erano stati dei momenti in cui lo avrebbe potuto fare, braccia che chiedevano anche più di un abbraccio ma non lo fece mai. Riteneva che quei gesti, quelle parole fossero troppo importanti, troppo impegnative, per essere gettate via allo sbaraglio in modo sconsiderato solo per coprire un vuoto, uno spazio, un tempo, un momento, un attimo in cui non si sa bene cosa dire o fare per far sorridere la sfitinzia di turno. Il bene non esisteva. L’amore era una balla colossale creata ad arte così tanto per coprire il buco nero dell’indifferenza perché la gente preferiva attaccarsi a un palo morire piuttosto che rendersi conto che alla fine era solo un uomo in mezzo ad altri uomini in eterna esposizione nella grande vetrina del mondo in saldo perenne in attesa che qualcuno gli tendesse una mano perché non fosse solo… e da soli non si poteva …. E che quella mano si aprisse e gli desse qualcosa a cui aggrapparsi per non morire di niente. Perché la gente per non morire di niente aveva bisogno degli altri. E ‘qui stava l’errore del genere umano perché il bene non era una parola, un gesto, una “cosa”. E le cose non sono amore. Il bene era credere in qualcosa o qualcuno più di ogni altro essere vivente e fare di tutto ogni giorno per trovare una scusa per continuare a farlo. A tutti i costi. Sempre e comunque. Nonostante la vita l’avrebbe messo più volte alle corde in un angolo buio per fargli pensare che fosse stato solo un brutto sogno, un errore, che aveva sbagliato, che era meglio ricominciare da un'altra parte e quella “parte” non era quella dove tentava di vivere. che doveva tapparsi in un buco e aspettare che tutto quell’imbroglio finisse che la Morte venisse a prenderlo per sempre senza ulteriori titubanze e mettesse fine a quella sesquipedale menzogna che era la Vita. Il bene era un calore, un ombra che lo seguiva, una mano che lo guidava, una voce che urlava un cuore che batteva, qualcuno che lo ascoltava… tutto questo a lui era stato prematuramente negato. Perché?… nessuna risposta. Tutto era vuoto intorno a lui, un eterna condanna, una comoda illusione destinata a morire presto come in una fredda stanza stava morendo il nonno settantenne.
Era appena entrato a casa quando la sua vista fu attirata dalle facce grame dei parenti. All’inizio pensò che tutto fosse normale. In fondo, non sorridere era pratica assai diffusa in quella casa. Ma quella volta tutto aveva un qualcosa di strano grave pesante misterioso funereo. La madre giaceva con occhi sbarrati con la testa a mezz’aria, la mano tremolante, con il telefono che penzolava sulla mensola della cucina in attesa che qualcuno lo riponesse. La nonna recitava strane litanie in una lingua sconosciuta inframmezzandola con anatemi e imprecazioni di varia natura. Gli zii come se il tempo intorno a loro si fosse fermato erano nella loro posizione di sempre: giravano preoccupati e ansiosi come non mai la stanza con la testa tra le mani e i capelli un puzzle sconclusionato e senza origine. Il resto un lago di lacrime trattenute a stento da un orgoglio timoroso di scoprirsi improvvisamente debole, sorprendentemente fragile, semplicemente umano. E lui non capiva. Cos’era successo? All’improvviso qualcuno si mosse. Era la nonna. Un flebile sussurro. Poche semplici parole. Quattro per essere precisi e una terribile notizia: il nonno era morto. Non lo vedeva da due anni. In quel momento avrebbe voluto isolarsi dal mondo intero ma non poté farlo. C’era la madre da consolare, gli altri parenti da chiamare per consumare il triste rito delle condoglianze. In quella parte del mondo, si era soliti dopo aver partecipato alle esequie e dato l’ultimo saluto al defunto di turno organizzare una sorta di banchetto con buffet e leccornie varie. Ne ricordava qualcuno dove si erano mangiati addirittura i tortellini! Che scandalo! Uno andava all’altro mondo e loro che facevano? mangiavano e bevevano lo spumante! Cosi prescriveva l’usanza dicevano quelli. A lui invece sembrò di assistere all'ennesima dimostrazione di forzato egoismo e ostentato pressappochismo tipicamente umano e nonostante lo invitassero a festeggiare con la scusa “che tanto lui dalle porte del Paradiso sarebbe stato contento” chissà perché non riuscì mai a convincersi che fosse davvero così. Dopo aver rivolto un’occhiata di provocatorio biasimo ai gozzoviglianti ospiti, corse in camera per soffocare l’ennesimo rospo di quella vita difficile. In quella casa era stato commesso un crimine possibile che quegli scrocconi mangiapane a tradimento non lo capissero? Stavano seppellendo la memoria del nonno con fiumi di spumante e chili di soverchie banalità impastate di tardivo rimorso. Bastava così poco per seppellire un uomo? L’uomo poteva essere davvero così cattivo? Non lo sapeva, non voleva saperlo. Ora in lui c’era spazio solo per i ricordi di quando si andava a raccogliere funghi nella piana, o di quando si faceva pipì e si giocava a chi la faceva andar più lontana, oppure quelle interminabili passeggiate fatte di lunghi discorsi e straordinari silenzi che però a volte valevano più di mille parole che lo scavavano dentro dandogli l’impressione di aver appreso qualcosa di nuovo, importante, fondamentale decisivo per il prosieguo della sua vita. E spesso era davvero così. Era un uomo tenero e socievole dolce e bonario, che sotto la scorza di durezza costruita a forza di mille speranze troppe volte deluse, nascondeva una saggezza infinita. Un piccolo grande filosofo quindi. Stava bene con lui anche perché era una delle poche persone che gli stava vicino senza pretendere di insegnargli la vita o peggio mettersi al suo posto quando si trattava di prendere decisioni importanti circa la sua vita con consigli che sarebbero stati certamente superflui, sicuramente disattesi, esageratamente di troppo. Aveva perso i genitori a dodici anni e quindi aveva vissuto fino alla maggiore età in un convento di frati minori a Padova tant'è che in paese lo chiamavano tutti “Il Padovano” dopodiché era vissuto un po' randagio andando di qua e di là alla ricerca di una sua dimensione spirituale pacifica in un tempo che (c’era la guerra) così pacifico non era orgoglioso di quel poco che aveva e di come era. Ora di lui non rimaneva altro che una gelida fotografia dai toni illanguiditi da una sottile malinconia che nascondeva l’antica fierezza di un uomo di cui adesso rimaneva solo quella misera e solitaria fotografia che era solo l’ombra della sua bellezza chiusa in un’anonima tomba di un trascurato cimitero di una lontana e desolata periferia. In quel maledetto dicembre dove anche la stella cometa aveva perso la strada e non brillava più e perfino la luna gli era nemica, il suo cuore, all’improvviso si sentì un po' più solo.

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