lunedì 27 luglio 2015

Massimiliano



Massimiliano se l’aspettava da un po’. Quelle nuove leggi, quella  riscoperta insicurezza, quei bilanci aziendali stilati in grigio. E poi lei, certo: quella crisi. Quel mostro senza volto che anche se si faceva vedere da qualche anno, sembrava esserci da una vita. Fosse stato almeno un drago o un grifone o un’altra pagina qualsiasi di un bestiario medievale sui quali s’emozionava bambino, almeno avrebbe  potuto cercare di affrontarla. Invece era fatta di abbandono, di elenchi, di livore. Di cancelli che chiudevano e l’indomani mattina non aprivano. 
Più.
 Massimiliano fu chiamato in una raffazzonata sala riunioni da quel capo con il parrucchino rabberciato che aveva un nome più corto e tanti anni meno di lui. Quando la porta si chiuse, il discorso fu subito chiaro. C’èra una lettera di licenziamento. Non servì neanche trovare una scusa. Massimiliano era dirigente. Conosceva bene quel modus operandi.
Massimiliano tornò alla sua scrivania cercando nei cassetti le parole giuste per dirlo ai colleghi. Nelle prossime ore, nei prossimi giorni avrebbe dovuto trovarle per la moglie, per i figli, per i vicini, per tutti. Oltre all’incertezza sul futuro, pesava quest’ombra di colpevolezza. E non bastava invocare la crisi e le logiche globali per spazzarla via.
Massimiliano mise senza fretta le sue cose in una scatola di cartone recuperata nel corridoio. Cose inutili, cose che non gli sarebbero servite . Sembrava la scena di un film americano, ma quella non èra Hollywood. Certo che no. Era la vita compressa in una delicatezza pretesa solo sui cartoni delle cose da portar via e per il resto impegnata solo a dar calci nel fondoschiena che lievi non erano per niente. Almeno per Massimiliano che a se stesso non aveva mai con

cesso nulla.
Staccò due foto dal muro. Com’erano piccoli i figli, l’estate del colloquio preliminare a quell’impiego cui aveva dedicato tutta una vita. Staccò il badge dei congressi con il suo nome, il logo dell’azienda e delle convention per best performer.   Lo fece senza odio, senza sarcasmo. Non aveva la mente abbastanza libera da trovarli grotteschi e farceli entrare entrambi. Bastava il suo nome chilometrico in fondo ridotto in minimi bilanci a polvere sulla scrivania. Da eliminare, rimuovere, sopprimere
Si sforzava di non pensare ai momenti belli vissuti in tanti anni di azienda. I successi, i colleghi, il mondo che cambiava in fretta e anche il suo lavoro che stava al passo ed era diventato stretto. Persino al suo nome così largo  da sembrare inamovibile. Si sforzava di non pensare a quando, fresco di laurea in ingegneria aerospaziale , si sentiva arrivato nel posto giusto.
Salutò i colleghi affaticandosi di sorridere. Capì il loro imbarazzo fatto di frasi che cercavano di essere rassicuranti. Staccò il suo biglietto da visita dalla cassettiera. L’aveva messo come targhetta. Quel nome cosi lungo aveva sempre faticato a starci. Chi lo sa. Forse tutto era un chiaro segno del destino. Un destino ora solo da assecondare, servire con quel nome ridotto a tappetino di una statistica. Astratta eclisse di una sorte, d’improvviso decise di assomigliargli rasandosi a zero e togliendosi la cravatta. Sembrava un altro.  Fedele per l’ultima volta  a  quella sua azienda e forse quel mondo, che non lo voleva più.


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