sabato 6 gennaio 2018

La magia subdola e geniale di Adriano Celentano

Nel caso del post di oggi, gioco forza, vanno fatte non una ma due premesse.
La prima è che Adriano Celentano, nella stagione postbellica imperniata sulla rinascita emotiva ed economica della nostra nazione, è stato un clamoroso esempio di genialità e voglia di fare.
Non vanno dimenticate, affatto, le sue battaglie insistite in difesa dell'ambiente, o anche la capacità rabdomantica con cui negli anni Settanta avrebbe pescato smorfie e parole apparentemente incongrue per imporre al successo una canzone cubista come "Prisencolinensinainciusol".
E d'altronde, indimenticabile è la tenerezza un po' analfabeta e un po' intellettuale -quando a dargli sostanza e poesia interveniva gente come Paolo Conte- di certe sue canzoni estive, leggere nell'aria almeno quanto certi baci e carezze rielaborati nei ricordi.
Dopodiché arriva la seconda premessa, che riguarda la figura artistica di Adriano Celentano aggiornata alle 08, 15  del 6 gennaio 2018.
Il ritratto di un cantante senza più eccessi d'estro né buoni maestri che, per non morire di noia in una villa brianzola, ha pensato di dedicarsi negli anni alla demagogia sermonale.
Roba che sa di inutile, almeno per milioni di italiani in overdose di banalità e furbizie, i quali vorrebbero un passo indietro del guru Adriano sul fronte del suo pseudo impegno sociale, e magari un passo avanti verso nuove soluzioni canore (o cinematografiche, perché no).
Ma comunque:
aldilà delle impressioni personali, dell'evidente involuzione dell'ultimo Celentano, e della sottolineatura dei suoi gloriosi trascorsi, Celentano, a questo punto, non ha più nulla da dire e tantomeno predicare, neanche potendosi preparare con mesi d'anticipo. Neanche accoppiandosi con Mina (lei sì ancora  davvero straordinaria).
Certo la sua guerra (dei bottoni) resta sempre la stessa, in teoria, incentrata sul ragazzo della via Gluck che a  ottant’anni ormai raggiunti combatte ancora per la tutela delle foreste d'oltreoceano e i diritti umani del cuculo di Abbiategrasso, oltre che per il fango di miseria che ha colpito negli anni la popolazione italiana.
Ma tutto questo, ormai, ha il sapore di "Truman show" almeno quanto Banderas nello spot che lo ha fatto mugnaio.
Bollito non più misto ma integrale, insomma, il favoloso folle di "Yuppi Du" stenta a dir poco  ormai quando straparla di malefatte e malfattori.

Invece no.
Perché sospinto dalla consapevolezza del proprio fine corsa, e del rigor show che provocano le sue ciacole  Adriano Celentano gioca in parallelo l'arma più subdola e geniale  avente ancora  a disposizione:
Sfrutta, cioè, i suoi vecchi e nuovi successi, per intessere il Grande Sermone con le loro liriche, combinando le dolcezze di una voce eterna (un po' stonata, a volte? ),con ’effetto psichedelico di concetti e moniti altrimenti insopportabili
Un combinato disposto capace di non smontare l'euforia dei canzonettari puri, ma anche di mungere l'apprezzamento snob di chi s'inchina e s’è inchinato negli anni,  a testi a volte postatomici come «si è spento il sole e chi l'ha spento sei tu», a volte metacristiani come «mi ricordo che un giorno, in mezzo a noi, venne un tipo che ogni cosa pensava giusto, e la fonte della vita era in lui», o a volte ancora strettamente apocalittici tipo «affamati come il mondo, viviamo in crudeltà, e tutto sembra perso, in questa oscurità».
Tanta roba, direbbe il più trucido degli intellettuali su piazza.
Anche se, in fondo, il vero trionfo arriva ancora e sempre  quando, liberato dai moscerini della contemporaneità, Celentano canta come ai tempi d'oro "Prisencolinensinainciusol":
canzone, è vero, con un testo fatto di frasi vuote. Ma appunto per questo capace di anticipare, già negli Settanta, il nulla che ora ci ritroviamo dentro.



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